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Causa di esclusione della colpevolezza ex art. 384, comma 1, c.p.: applicazione analogica al convivente more uxorio

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Con  sentenza n. 10381 del 26 novembre 2020(motivazione depositata il 17 marzo 2021), le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione valutano l’applicabilità della causa di esclusione della colpevolezza, di cui all’art. 384, comma 1, c.p., al convivente more uxorio.

E la questione si intreccia, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima.

La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli; la differenza, però, attiene alla c.d. formalizzazione del rapporto.

Ciò ha impedito, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale, che le due situazioni potessero trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost.: pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza”, quest’ultimo era distinto dal rapporto coniugale e ricondotto nell’ambito della protezione, offerta dall’art. 2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali; il rapporto coniugale era invece ricondotto allo schema del citato art. 29.

Le decisioni della Corte di cassazione favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 c.p. alle coppie di fatto richiamano, invece e spesso, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare”, ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU.

L’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.

Un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra, poi, nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento Europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

La su citata disposizione normativa riconosce e garantisce separatamente i due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e, in tal modo, creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.

Il “diritto di sposarsi”, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia”, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.

Dal punto di vista interno, il legislatore del 2016 è intervenuto, con la legge c.d. Cirinnà, in un quadro complesso, sicuramente disorganico, che non poteva essere ignorato, sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.

In questo scenario complessivo, l’art. 384, primo comma, c.p. detta una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza: vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.

Con riferimento all’art. 384 c.p. , comma 1, i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto.

Il riconoscimento alla disposizione di cui all’art. 384, comma 1, della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella “particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto”, tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale.

Il disvalore oggettivo della condotta non viene meno, ma l’ordinamento prende in considerazione “i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere” ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, “l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione”.

Queste caratteristiche portano ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi – che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., comma 1, sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.

 

E così l’applicazione dell’art. 384, co. 1, c.p. anche alle coppie di fatto trova piena giustificazione per esser volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto. In questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a “tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione”.

Insomma, l’art. 384, comma 1, è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia”. Ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità”, che coinvolge la sfera della “colpevolezza”.

La struttura, la funzione e la natura della scusante consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente, nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.

Pertanto, “l’art. 384 c.p., comma 1, in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

Sarà però necessario che la situazione di “convivenza” risulti in base ad elementi di prova rigorosi: la L. n. 76 del 2016 , definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale. A seguito della citata legge del 2016, la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4, e all’art. 13, comma 1, lett. b), del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate” sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova, ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo.

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