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Diffusione di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico: la negazione della Shoah

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La Prima Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3808 del 19 novembre 2021 (motivazione depositata il 3 febbraio 2022), si è pronuncia sulla diffusione di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale/etnico nonché sulla negazione della Shoah; in particolare, su fatti accaduti durante la celebrazione del Giorno della Memoria del 27 gennaio 2017.

Nel dettaglio. L’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654 (cd. Legge Mancino), portante «Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966», prevedeva, nel testo vigente all’epoca del fatto (dal 13 marzo 2016 al 11 dicembre 2017), che: «1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 2. (comma soppresso dalla I. 25 giugno 1993, n. 205 che ha convertito il d.l. 26 aprile 1993, n. 122). 3. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. 3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232».

La disposizione, emendata dopo la commissione del fatto per cui si procede dalla legge n. 167 del 2016 (in vigore dal 12 dicembre 2017) che ha esteso le condotte punibili anche alla «minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah», è ora trasfusa nell’art. 604-bis cod. pen., in forza del d.lgs. 10marzo 2018, n. 21.

È bene considerare che l’espresso riferimento al negazionismo è stato inserito nella fattispecie incriminatrice dalla legge 16 giugno 2016, n. 115 in adempimento di precise indicazioni del Consiglio d’Europa. Del resto, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato alcune questioni centrali nell’ambito della riflessione sul reato di negazionismo, come ipotesi in cui si ammette una limitazione della libertà di espressione tutelata dall’art. 10 della Convenzione. Vi sono, infatti, numerosi e autorevoli precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto non in contrasto con l’articolo 10 della CEDU la sanzione imposta dagli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa all’espressione di opinioni offensive della memoria e dell’identità dei sopravvissuti dell’Olocausto.

Si consideri, per esempio e con riferimento diretto alla questione del negazionismo, la sentenza Garaudy contro Francia del 1998, in cui la Corte, di fronte alle affermazioni rispetto alle quali i ricorrenti lamentavano, in particolare, una violazione della libera manifestazione del pensiero, ha effettuato una distinzione che merita di essere ricordata perché citata come precedente in altre sentenze sul negazionismo. I giudici di Strasburgo hanno individuato una categoria di «fatti storici chiaramente stabiliti» – come l’Olocausto – e una categoria di fatti rispetto ai quali «è tuttora in corso un dibattito tra gli storici circa come sono avvenuti e come possono essere interpretati». La Corte EDU affronta la questione dei limiti al dibattito storico sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e, pur considerando necessario per qualsiasi paese il dibattito aperto e sereno sulla propria storia, afferma l’esclusione della garanzia dell’art. 10 CEDU per il discorso revisionista o negazionista sull’esistenza dell’Olocausto. Secondo tale interpretazione spetta alla Corte, a partire dall’obiettivo perseguito, dal metodo utilizzato e dal contenuto delle affermazioni, valutare se vengono o meno rimessi in discussione dei «fatti storici». Ed è in base a tale ragionamento che la Corte EDU ha dichiarato irricevibile la richiesta del ricorrente, ritenendo che il libro pubblicato da Garaudy avesse come obiettivo di rimettere in discussione l’Olocausto, visto che propugnava tesi negazioni ste. Lo scopo – secondo la Corte – non sarebbe dunque la ricerca della verità, ma piuttosto quello (inaccettabile) di riabilitare il regime nazionalsocialista e, di conseguenza, accusare di falsificazione storica le stesse vittime di questo regime. Affermazioni di questo genere, secondo la Corte, «mettono in discussione i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e sono tali da turbare gravemente l’ordine pubblico. Offendendo i diritti altrui, questi comportamenti sono incompatibili con la democrazia e con i diritti umani e i loro autori perseguono obiettivi, quali quelli vietati dall’art. 17 CEDU». Se ne deve concludere, perciò, che queste affermazioni negazioniste non rientrano nella tutela dell’art. 10 CEDU e contrastano con i valori fondamentali della Convenzione di giustizia e pace che sono espressi nel Preambolo.

Ma c’è di più.

La giurisprudenza di legittimità italiana ha da tempo chiarito che le condotte di cui all’art. 3, primo comma, lett. a), I. n. 654 del 1975 consistenti nel propagandare idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero nell’istigare a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi configurano ipotesi di reato a dolo generico, non potendosi opporre, la dedotta «buonafede» dell’imputato circa la veridicità delle ideologie propagandate e la negazione dell’Olocausto ebraico.

In questo caso, l’esistenza dell’elemento psicologico si desume anche dalla scelta di compiere le condotte di cui si discute in coincidenza con il Giorno della Memoria e dunque in pieno e sordo contrasto con una specifica previsione normativa che ha istituito tale momento di ricordo.

L’art. 1, della legge 20 luglio 2000, n. 211, portante «Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti», stabilisce: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Il successivo art. 2, comma 1, prevede: «In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle 10 Corte di Cassazione – copia non ufficiale scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».

La previsione normativa è cristallina nel precetto, maieutica nel metodo e didattica nei mezzi.

La legge n. 211 del 2000, del resto, si inquadra in una prospettiva mondiale che vede l’intera Comunità Internazionale impegnata a contrastare il negazionismo dell’Olocausto ebraico. Il Giorno della Memoria è, infatti, una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla Risoluzione n. 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1 0novembre 2005, durante la 42a riunione plenaria. Non deve essere sottovalutato che la risoluzione fu preceduta da una Sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo Anniversario della Liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine dell’Olocausto. Non può fare a meno di ricordarsi che si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz e documentarono, in modo definitivo e perciò incontrovertibile, l’orrore e la follia omicida che erano stati scientificamente e metodicamente attuati in quegli anni per sterminare un popolo e gli oppositori del regime nazista.

Per concludere, la prospettiva del revisionismo dell’Olocausto ebraico, oltre a basarsi su semplici asserzioni e sulla pedissequa riproposizione di argomentazioni ampiamente smentite da documenti ufficiali della Comunità Internazionale e delle autorità giudiziarie internazionali (a cominciare, per citare solo la questione della «soluzione finale», dai risultati del processo di Norimberga), ripropone ostinatamente argomentazioni espressive di ideologie che già la storia ha giudicato e che nulla hanno a che vedere con la critica e l’analisi storica di un fenomeno che, lungi dall’essere oggetto di controversie storiografiche, deve piuttosto considerarsi storicamente avvenuto e addebitabile ai regimi nazisti e fascisti che hanno governato l’Europa tra la terza e la quinta decade dello scorso secolo.

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