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Detenuto e trattamenti inumani e degradanti: nei 3 mq/persona non è computabile lo spazio occupato dai letti singoli, se ancorati al suolo

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La Prima Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 18681 del 26 aprile 2022 (motivazione depositata l’ 11 maggio 2022), si è pronunciata in tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati previsti dall’art. 35 ter ord. penit., affermando che, ai fini della determinazione della superficie minima pro capite di 3 metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, stabilito dall’art. 3 della Convenzione E.D.U., così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte E.D.U., non è computabile lo spazio occupato, oltre che dai letti a castello, anche dai letti singoli, ove questi siano ancorati al suolo.

Nel caso di specie, il contrasto riguardava la superficie occupata dal letto singolo (e non a castello), trattandosi di oggetto mobile che può essere utilizzato per lo svolgimento di attività quotidiane ulteriori rispetto al riposo e la cui superficie quindi, secondo il Ministro della Giustizia ricorrente, non doveva essere sottratta dallo spazio di 3 metri quadrati dedicato al singolo detenuto.

Ebbene, la giurisprudenza consolidata della Corte EDU sul tema, afferma la Suprema Corte, attiene specificamente alla possibilità di movimento del detenuto all’interno della cella e non alla vivibilità complessiva all’interno della cella stessa.

Non a caso, già la decisione della Corte EDU Ananyev c. Russia pretendeva “la possibilità di movimento libero fra gli arredi”, mentre quella Mursic c. Croazia osservava che “L’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”.

In definitiva, la duplice regola dettata dalla Corte EDU può essere legittimamente interpretata nel senso che, quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella. È, al contrario, escluso dal calcolo lo spazio occupato dagli arredi fissi, tra cui rientra anche il letto a castello».

L’importanza attribuita al “movimento” del detenuto, cioè alla possibilità di camminare e di spostarsi nella stanza si comprende, ovviamente, alla luce della condizione carceraria: le persone non detenute dimorano tranquillamente in stanze nelle quali la superficie pro-capite è magari inferiore a quella stabilita dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma hanno la possibilità di uscire da quella stanza e di muoversi liberamente nell’abitazione e fuori dall’abitazione.

Se, invece, la camera è una cella nella quale il detenuto è obbligato a rimanere per un lungo periodo di tempo senza poter uscire, la possibilità di movimento, il poter compiere alcuni passi per spostarsi, diventa vitale, rilevantissimo e la relativa impossibilità rischia di essere intollerabile, degradante e inumana.

Alla luce di questa argomentazione, la considerazione secondo cui il letto singolo può essere utilizzato per finalità ulteriori rispetto al riposo (leggere, giocare a carte, parlare ecc.), a differenza del letto a castello, non rileva per la decisione in punto di sovraffollamento. Se il letto singolo è ancorato al suolo – non è, cioè, mobile – i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e per spostarsi; se, invece, non è ancorato al suolo, c’è la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e di tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio.

La detrazione dovrà essere operata pertanto, secondo quanto stabilito dalla Cassazione, solo allorché i letti singoli siano ancorati al suolo, perché in questo caso beni non mobili cioè non “spostabili”.

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